Siamo tutti dimenticabili, i 'grandi' li ricordiamo perchè bisogna portare a casa un bel voto da scuola.

Mese: Marzo 2014

Rileggendo Spoon River

Msg. n. 11 Inviato da mimmo.parisimp0 alle ore 20:01 del giorno 21/03/2014
Il grande cielo

 

Prologo

Tra il 1914 e il 1915 il poeta americano Edgar Lee Masters pubblicò sul “Mirror” di St. Louis una serie di epitaffi successivamente raccolti nell’Antologia di Spoon River. Ogni poesia racconta la vita di un personaggio, ci sono 19 storie che coinvolgono un totale di 244 personaggi che coprono praticamente tutte le categorie e i mestieri umani. Masters si proponeva di descrivere la vita umana raccontando le vicende di un microcosmo, il paesino di Spoon River. In realtà si ispirò a personaggi veramente esistiti nei paesini di Lewistown e Petersburg, vicino a Springfield (la città dei Simpson?) e infatti molte delle persone a cui le poesie erano ispirate, che erano ancora vive, si sentirono offese nel vedere le loro faccende più segrete e private pubblicate nelle poesie di E.L.Masters.
Il bello dei personaggi di Edgar Lee Masters, infatti, è che essendo morti non hanno più niente da perdere e quindi possono raccontare la loro vita in assoluta sincerità.

Ed ora quattro chiacchiere con Mimmo Parisi, autore del “Grande cielo”

D. Ciao. Da dove nasce “Il grande cielo” e come ti è venuto in mente di fare questo disco?

R. Il fatto è che sto rileggendo Spoon River che come tanti ho letto da ragazzo, avrò avuto 18 anni. Mi era piaciuto, e non so perché mi fosse piaciuto, forse perché in questi personaggi si trovava qualcosa di me. Poi mi è capitato di rileggerlo, due anni fa, e mi sono reso conto che non era invecchiato per niente, mi ripromisi che, appena qualche scintilla giusta si fosse palesata nella mia mente, ne avrei parlato anch’io. Ovviamente il rimando nel brano non si nota, sì, voglio dire che non faccio citazioni dirette, ma l’aria che si respira nella mia canzone è quella della collina americana. Rileggendolo ho riflettuto su di un fatto: nella vita, si è costretti alla competizione, magari si è costretti a pensare il falso o a non essere sinceri, nella morte, invece, i personaggi si Spoon River si esprimono con estrema sincerità, perché non hanno più da aspettarsi niente, non hanno più niente da pensare. Così parlano come da vivi non sono mai stati capaci di fare.

D. Cioè, tu hai sentito in queste poesie che nella vita non si riesce a “comunicare”? Quella che a me pare la denuncia più precorritrice di Masters, la ragione per la quale queste poesie sono ancora attuali, specialmente tra i giovani?

R. Sì, decisamente sì. A questo punto ho pensato che valesse la pena ricavarne una riflessione, parole e melodia, che esprimessero il mio punto di vista attuale. D’altra parte nei dischi racconto sempre le cose che faccio, racconto la mia vita, certo di esprimere i miei malumori, le mie magagne (perché penso di essere un individuo normale e dunque penso che queste cose possano interessare anche agli altri, perché gli altri sono abbastanza simili a me), sì, decisamente ho cercato di ispirarmi allo ‘spleen’ di Spoon River per mettere giù qualche verso sulla realtà che vivo io.

D. Bene, a questo punto ti chiedo una chiusura adatta a “Il grande cielo” e il suo autore.

R. Ti rispondo tra il serio, il faceto e l’autoironico, vorrei che Francesco Guccini, immenso cantautore che non ha bisogno certo delle mie congratulazioni, potesse dire di me che anch’io, al pari di De Andrè, ho capito la lezione di Lee Masters!

 

Per gentile concessione di Silvio Farnese (http://www.comunicati.eu/wp-admin/post-new.php), giornalista e blogger

Ecco il video del “Grande cielo”:

http://www.youtube.com/watch?v=F7ghHjFG8W0

 

 

Quei piccoli col braccialetto rosso

“Braccialetti Rossi” ha trovato grande riscontro tra i giovani, sembra che il velinismo e il ‘vogliofareilcalciatoreperchèèfigo’ siano stati per un attimo accantonati per dare all’attenzione argomenti dotati di sicuro spessore. E’ un po’ fantascienza pensare che questo sia il segno che possa traghettare la fascia d’età tra i 14 e i 33 anni verso un approccio più dignitoso alla vita, tuttavia il film, o meglio, la fiction che tira adesso è questa. Vedremo. Vale la pena segnalare che comunque l’aria che si respira su questo set è quella mutuata dai vari Grandi Fratelli che hanno fatto credere a migliaia di persone che nella vita basta la faccia tosta e una botta di culo per sfondare, tuttavia tutte le strade portano a Roma recitava un vecchio adagio, e, se si è dovuto passare sotto le forche caudine della miseria mediatica dei reality ‘siamotutticapacidifarcazzate’, ben venga anche questo viottolo!

Ambientata in un ospedale pediatrico pugliese, la fiction di Rai1 dedicata alle storie di bambini malati di cancro, ha toccato picchi d’ascolto altissimi, sfondando il muro dei sei milioni di telespettatori. Un successo che sembra interpretare una vera tendenza: le intense storie dei protagonisti legate alla malattie e i valori edificanti che li aiutano a superare il dolore di ogni giorno entusiasmano il pubblico nonostante l’argomento trattato sia così delicato. Perché il titolo Braccialetti rossi? Perché per “sopravvivere” alla dura vita dell’ospedale i ragazzi decidono di formare una sorta di club: chi ne fa parte diventa “amico” con l’unico scopo di sostenersi e incoraggiarsi. La fiction di Rai1 si inserisce in un filone già ampiamente trattato negli Stati Uniti da serie come Breaking Bad The big C (che parlano di cancro) oltre che dai più classici ER- Medici in prima linea e Doctor House, ambientati negli ospedali. A ispirare il format? Il romanzo del catalano Albert Espinosa (che sta andando a ruba in tutte le edicole a 12 euro), scrittore malato di cancro per dieci anni, che è riuscito a guarire, trasformando il male in una grande esperienza.
IL LIBRO CHE HA ISPIRATO IL FORMAT/ Albert Espinosa ha compiuto un miracolo: malato di cancro per dieci anni, è riuscito a guarire, trasformando il male in una grande esperienza. A guardarlo è lui stesso miracoloso, capace di contagiare gli altri con la propria vitalità. Albert Espinosa racconta nel libro “Braccialetti rossi” (nelle librerie per Salani e in edicola con il Corriere della Sera) la propria giovinezza segnata dal tumore: più di un diario, più di una testimonianza, è una raccolta di tutto ciò che la sua condizione gli ha insegnato. E non c’è niente di astratto o dolente in queste pagine, ma la semplice volontà di mettere in pratica tutta la bellezza di quelle ‘lezioni’: come capire all’improvviso che perdere una parte di sé non è una sottrazione di vita, ma l’occasione per guadagnarne di più. In ventitré capitoli, che non a caso vengono chiamati ‘scoperte’, Albert Espinosa mostra come unire la realtà quotidiana ai sogni più segreti, come trasformare ogni istante di vita, anche il più cupo, in un momento di gioia.

LA TRAMA DEL LIBRO/ L’ambientazione è quella di un ospedale, in cui si ritrovano alcuni giovani ragazzi di età diversa dagli 11 ai 17 anni, che si conoscono e formano un vero e proprio gruppo il cui riconoscimento è appunto un braccialetto rosso al polso, donati loro dal “leader” Leo, che ha collezionato i braccialetti di tutte le sue operazioni. Ricoverati per motivi differenti, Leo e Vale hanno entrambi un tumore alla gamba, ma mentre al primo è già stata amputata, il secondo lotta per prevenirla, entrambi sono infatuati dell’unica ragazza del gruppo, Cris, che invece è in ospedale perché soffre di anoressia. Davide, “il bello” ha problemi di cuore, Tony “il furbo” ha avuto un incidente in moto, ed infine Rocco “l’imprescindibile si ritrova in coma ma gli altri si rivolgono a lui come cosciente membro del team. Albert Espinosa – Braccialetti RossiNel loro micro-cosmo impareranno insieme i valori della vita, credendo in se stessi e nella propria guarigione: vedremo che l’affetto è un elemento quotidiano che si riscontra soprattutto nelle piccole cose, che la sottrazione di una parte di sé non è la perdita di se stessi, che se si desidera fermamente qualcosa e si agisce opportunamente, ciò si creerà grazie alla nostra volontà. Un’opera estremamente toccante ma che riempie il cuore di speranza ed energia, quella che spesso hanno i giovani malati.
Il fenomeno televisivo dell’anno “Braccialetti Rossi” ha trovato grande riscontro tra i giovani. Affaritaliani.it ne ha parlato con il filosofo e psicologo Sandro Spinsanti, responsabile del comitato scientifico del Festival del Saper Vivere che prenderà il via il prossimo ottobre.
L’INTERVISTA
Il filosofo e psicologo Sandro Spinsanti, responsabile del comitato scientifico del Festival del Saper Vivere che prenderà il via il prossimo ottobre, spiega in esclusiva ad Affari che la tv è di fronte a una svolta: preferisce il pathos all’eros. E rivela: “I social network hanno reso i giovani più sensibili”.
Il fatto che un programma come Braccialetti Rossi abbia conquistato una vastissima platea soprattutto di giovani è il segno che qualcosa sta cambiando nella cultura?
“Il cambiamento non è di oggi. E’ una svolta lenta di cui la tv è testimone dai tempi del successo di serie tv americane come E.R. o Dr. House, tutte ambientate negli ospedali. Ora anche dal boom di audience della fiction italiana Braccialetti Rossi si evince che temi apparentemente lontani dall’intrattenimento attraggono sempre più il grande pubblico”.
I protagonisti sono malati di cancro…
“Proprio questo è l’elemento interessante. Fino a non molto tempo fa non solo non se ne parlava se non in sedi specialistiche, ma il cancro era un tabù assoluto. E’ stato sdoganato da due serie tv tra le più affascinanti del panorama statunitense, Breaking bad e The big C, che hanno affrontato senza remore il tema del cambiamento che la patologia oncologica porta nella vita della persona”.
Come mai?
“Credo che la televisione manifesti il bisogno sociale di diffondere vissuti di ‘pathos’, che ha una capcità attrattiva non minore dell”eros'”.
Immedesimazione, paura, amore per il prossimo: che cosa genera secondo lei questo interesse verso le storie di dolore?
“Sì, c’è tutto questo, ma anche la volontà di infrangere tabù e fare della vita l’argomento di una conversazione importante”.
I giovani rappresentano la maggior parte dello share…
“Questa è una sorpresa, ma non è l’unico caso in cui rivelano una sensibilità sorprendente…”
Ma quindi i giovani stanno cambiando?
“Credo che il discorso si possa ricondurre alla capacità di comunicazione che i giovani sviluppano all’interno dei social network. Il vissuto, le fantasie, le passioni e le paure (insomma la sfera emotiva dei singoli) sono sempre più al centro di uno scambio continuo tra i giovani e questo fa sì che anche le esperienze di patologia e sofferenza diventano oggetto di tante conversazioni, più oggi che ieri. Siamo di fronte a una svolta culturale molto importante da questo punto di vista”.

Bene, il giudizio critico su tutta la faccenda è ovviamente positivo e dedico alcuni magnifici versi di Luigi Tenco ai piccoli ammalati di tutto il mondo (da ‘Vedrai vedrai’):
“…come fossi un bambino che ritorna deluso
si lo so che questa non è certo la vita
che hai sognato un giorno per noi
vedrai, vedrai
vedrai che cambierà
forse non sarà domani
ma un bel giorno cambierà”.
Qui invece qualche verso di Mimmo Parisi, il quale cerca di riportare a terra l’attenzione degli individui, persi ormai a progettare cose che non riusciranno probabilmente mai a realizzare (da ‘…Qui ci vorrebbe John Wayne’):
“Ma quale senso poi ha
Il vento della novità
Mondo ci dai meraviglie
Ma non abbiam meraviglia
Crediamo solo al PIL
Ai falsi miti
Al new deal”
A cura di Diego Romero, giornalista freelance e blogger
Qui il video di ‘Vedrai vedrai’:
e di seguito: ‘…Qui ci vorrebbe John Wayne’:
Pubblicato da 8411.tempest a  Nessun commento: 

Il mio nome è Carrie

Averne di horror di quella tipologia! Voi che ne dite? Mah, comunque l’autunno è superato, le feste pure, perfino la befana (ma lo sapevate che questa vecchietta grinzosa e in disfacimento prende il suo nome da ‘epifania’ che sta a rappresentare la rivelazione, il fulgore della novità etc.?) è in fuga verso il dimenticatoio. Per quanto riguarda noi tutti che siamo tornati alle nostre routinarie occupazioni, che dire se non:

brrr! allacciamoci bene i cappotti e alziamoci i baveri: i venti di remake spirano più forte della bora. Chi ricorda il sottotitolo della Carrie originale, quella diretta nel 1976 da Brian De Palma? Era “Lo sguardo di Satana”. Chi ha risposto giusto non ha vinto niente, speriamo che non se la prenda, comunque per tornare al nostro tema, quel sottotitolo era una sintesi notevole perché riassumeva in poche parole il film più di una trovata che avrebbe potuto ideare  un ‘creativo’ degli uffici stampa. Carrie  (Sissy Spacek) possedeva  qualcosa di speciale: era una teenager che scopriva di fruire un potere demoniaco, quello di distruggere qualunque cosa col pensiero. A ideare il tutto era stato ovviamente quel furbacchione di Stephen King, di cui Carrie fu anche il primo romanzo pubblicato. Era anche già intriso di tutta quella melma di ossessioni – una madre folle e iper-protettiva, la provincia come culla di mali insondabili, l’isolamento degli “strani” e la cattiveria dei coetanei – che da allora ne hanno popolato la bibliografia. De Palma aveva reso alla perfezione tutto ciò in un film snello, breve ma intenso e malato come la scrittura di King.


Sono passati trentasette anni sotto i ponti del tempo e sui volti di quei fortunati(?) che potettero assistere alla paura in celluloide marchiata 1976/De Palma. Nel 2013 è stato approntato il nuovo remake di Carrie a firma di Kimberly Peirce. Si tratta, più precisamente, di una nuova lettura del romanzo. A Hollywood è ormai conclamata la mania del riprendere qualcosa di successo e riproporla sotto un’altra luce: quella del terrore. Certo, è una luce che già esisteva precedentemente, ma, come dire, questa luce è più potente, sono aumentati i watt terrorifici! Sarà la crisi, sarà il nuovo millennio, queste rappresentazioni artistiche sembrano avere più chance di atterrire di allora. Ecco le scelte di casting: laddove De Palma aveva scelto con cura i volti inquietanti di Sissy Spacek e Piper Laurie, qui la Peirce gioca sul sicuro e affida i ruoli di Carrie e della madre a due volti “belli” come quelli di Chloe Moretz e Julianne Moore. Ovviamente, visto la sua caratura estetica, credere che la Moretz possa soffrire di impopolarità tra i coetanei risulta improbabile, a meno che i suoi amici non soffrano di particolari affezioni idiopatiche!

 

Parlando di venti di remake, alla Carrie in celluloide vestita, non si può non aggiungere la sua

omonima di pentagramma adornata. Va da se, e non si deve fare nemmeno una gran fatica, visto il successo strepitoso e planetario che riscosse nello scorcio del millennio morente, che qui si fa riferimento alla Carrie di hair rock marchiata e proveniente dalla fredda(?) e nordicissima Svezia dei magnifici 5 vichinghi Europe.  Dunque, gli Europe sono sempre in giro. Dopo lo scioglimento del 1992 e carriere soliste abbastanza oscure, l’inevitabile reunion di inizio millennio ha infatti restituito ai fan il gruppo svedese nella sua formazione più ‘vera’, quella in cui alla chitarra c’è John Norum e non Kee Marcello. Il leader e compositore è ovviamente rimasto il 49enne Joey Tempest, che, qualche tempo fa, alla Feltrinelli di piazza Piemonte a Milano è apparso in buonissima forma regalando mezzora di show acustico insieme a Norum. A quest’ultimo non è stato chiesto, ma solo perché era scontato, come mai nel 1986 lasciò il gruppo dopo il successo mondiale di The Final Countdown. La risposta sarebbe stata: stanchezza, stress per dover aderire ad uno stereotipo, voglia di sperimentare. Cose incomprensibili, per chi è fuori da quei giri, non si dovrebbe cambiare mai la squadra che vince (è teoria, chi non ha mai vinto può essere aiutato a capire questo status solo provando l’esperienza in prima persona), ma un artista ci sta che la pensi così. In situazioni come quella di Milano c’è di solito il rischio dello snobismo, cioé che i tuoi idoli non vogliano sminuire la loro produzione recente riproponendo qualche vecchio brano, ma gli Europe non hanno deluso. Anzi, hanno regalato anche un loro versione di qualche brano italiano, insieme a Rock the night e a The Final Countdown. Di Carrie ci hanno fatto solo qualche accordo, ma forse quelli della Feltrinelli temevano che gli accendini potessero condurre verso un falò. Se si sono consumati fino all’inverosimile i vinili di EuropeWings of Tomorrow (il vero fan deve dire che l’album preferito è questo), The Final CountdownOut of this World e Prisoners in Paradise, di quello che è avvenuto dopo la reunion abbiamo saputo solo tramite il web.

Chiudiamo questo riassuntivo e (scusate l’ossimoro) finale prologo citando l’aspetto ‘remake’ musicale, come già ventilato qualche rigo sopra, del nostro affaire argomentativo, ovvero la  versione ‘mimmoparisistyle’ di Carrie del rockantautore Mimmo Parisi.

(A cura di Giovanni Contini)

Buon remake a tutti e andatevi a vedere la nuova Carrie cinematografica e la reinterpretazione di Mimmo Parisi che trovate al link: http://www.dailymotion.com/video/x19o22z_carrie-by-k-peirce-m-paris…

800 euro per un Presidente vero

Probabilmente non lo pensa nessuno, ma se a qualche distratto è venuto in mente Napolitano, non glielo si può perdonare. Perché c’è pure questo, che qualche imbecille provi simpatia per questo signore incapace. Insomma, se proprio si vuole parlare di povertà associata a Napolitano, beh, questa al massimo è riconoscibile e rintracciabile nella povertà di capire che è ora di smetterla – insieme agli altri politici cialtroni – di andare in tv è dire che qualcuno si deve occupare di questa austerity che non finisce. Qualcuno si deve occupare… Siamo alla farsa, i politici che dichiarano che si faccia qualcosa per il disagio delle persone! E’ come se l’idraulico dicesse al mondo di far intervenire qualche tecnico adatto a far funzionare i rubinetti! Incredibile, questa è gente da licenziare immediatamente e farsi ridare indietro i soldi che indegnamente e senza alcuna competenza, se non quella di arricchirsi, hanno rubato allo Stato!

Comunque, via, sveliamo il tema di questo articolo: José Alberto “Pepe” Mujica Cordano. Questo signore, nel vero senso della parola, non possiede un conto in banca, né tantomeno ha una carta di credito nel suo portafoglio. Vive con poco più che 20mila pesos al mese (800 euro) e non ha bisogno di una scorta, benché José Alberto “Pepe” Mujica Cordano, classe 1934, ricopra da due anni l’alta carica di presidente della Repubblica dell’Uruguay.
Non è un alieno o un ricco ed eccentrico miliardario prestato
alla politica. E non è nemmeno un esibizionista, Mujica, che poco reclamizza la sua austera condotta. È soltanto un esempio di buona politica che viene dal Sudamerica. Ogni mese dei 250mila pesos (circa 10 mila euro) del suo stipendio da Capo di Stato, Mujica trattiene per sé soltanto quegli 800 euro che in Uruguay equivalgono allo stipendio di un impiegato bancario. Il resto, il 90% dei suoi emolumenti, è devoluto al Fondo Raúl Sendic, un’istituzione che aiuta lo sviluppo delle zone più povere dell’Uruguay attraverso la costruzione di abitazioni con acqua e luce. Anche per questo e non solo per i suoi trascorsi, Pepe, come ama farsi chiamare dai premier stranieri in visita fino al fattorino, è amato e rispettato tanto quanto il nostro ex presidente Sandro Pertini con cui condivide il fatto di essere stato arrestato e imprigionato.
Ex guerrigliero ai tempi della dittatura di Jorge Pacheco Areco, Mujica fu leader della corrente di liberazione Tupamaros, organizzazione radicale marxista ispirata alla Revolución cubana. Nel nel marzo del 2010 ha stravinto le presidenziali con il Movimento de participación popular (Mpp). Fu un evento storico culminato con due settimane di festeggiamenti nella capitale di Montevideo.

È descritto come un uomo per bene, la cui sete di vendetta non ha mai guidato le sue scelte politiche, nemmeno contro i suoi aguzzini che lo tennero in prigione per 15 anni nel terribile carcere di Punta Carretas, la Alcatraz del Cono Sur.

Per il Fisco uruguaiano, Pepe Mujica è un nullatenente, il cui unico patrimonio è una vecchia Volkswagen Fusca di colore celeste (il nostro Maggiolino). Abita a Rincón del Cerro, nella periferia di Montevideo, in una fattoria tra cavalli, mucche e galline, proprietà della moglie, la senatrice Lucía Topolansky. E quando gli chiedono il motivo di tanta austerità e di questo stipendio da fame, lui non esita a rispondere: «Questi soldi, anche se sono pochi, mi devono bastare perché la maggior parte degli uruguaiani vive con molto meno». Fin dalla sua elezione Pepe Mujica ha chiesto di non avere una scorta e come un’auto presidenziale ha chiesto un’utilitaria, una Chevrolet Corsa che usa solo durante gli incontri ufficiali. La sua unica scorta è Manuela, una bastardina che lo segue ovunque anche tra i marmi del Palacio Legislativo.


I suoi aficionados, ancora lo ricordano da giovane: quando, dopo la caduta della dittatura militare, correva verso il parlamento sulla sua Vespa. E da titolare della più alta carica dello Stato, lo stile di vita di Pepe Mujica non è poi tanto cambiato. Ha una zazzera abbondante, grigia e spesso scompigliata, non indossa mai la cravatta e nelle foto ufficiali ha l’aria, più che di un presidente, di uno che si trova lì per caso accanto ad altri capi di Stato. Anche la sua pensione di senatore, da anni, la dona interamente in beneficenza. Niente sprechi, niente protocolli. Auto blu e parlamentari baby-pensionati «¡No pasarán!» mai in Uruguay, il secondo stato più piccolo del Sudamerica che si è ritagliato un ruolo importante in politica ed economia.
Oltre alla generosità, Pepe è anche ricordato per essere “il Presidente della porta accanto”. Si ferma sempre a parlare con i cittadini, saluta il salumiere e l’ortolano del suo quartiere, abbraccia i piccoli giocatori della squadra di calcio Huracán, che va a vedere ogni domenica. E la gente lo ama. Adora il suo modo di governare e lo segue anche in Spagna, unico Paese europeo che ha visitato dopo la sua elezione. Mercoledì, il presidente Pepe ha persino aperto le porte della sua residenza ufficiale ai senza tetto: ha disposto che una vasta area del Palacio Suarez y Reyes ospiti chi non ha niente. È questa l’idea di politica che ha Pepe.

Mimmo Parisi, cantautore e blogger

Giudizio critico della faccenda: eccezionale. Alle nazioni, come l’Italia, che non hanno un simile personaggio circolante si dedica il brano “…Qui ci vorrebbe John Wayne”, perché lo meritano con forza, qui il video:

 

John Wayne arriverà (prima o poi)

Mimmo Parisi palesa il proprio impegno diluendo insieme polemica, canzone politica (intesa come descrizione di quel che dovrebbe essere e quello che invece passa il convento) e romanticismo.
E’ questo quello che differenzia le sue opere da quelle di altri “colleghi cantautori”.
Nelle sue canzoni, anche in quelle più “graffianti”, convivono elementi di denuncia, descrizioni ovviamente che passano attraverso la metafora, situazioni anche sentimentali (perlomeno quelle che sono situazioni sentite e provate sulla propria pelle). E’ come se all’impegno politico fosse stato dato “un cuore” e l’ideologia fosse accompagnata dal sentimento: c’è lo Stato che opprime con la sua ‘paralisis’ di marca joyciana, c’è la rabbia e la denuncia ma c’è anche la descrizione di momenti di nostalgia davanti a “ideali” che sembrano svanire con il passare degli anni. E’ come se al centro della sua poetica, Mimmo abbia messo vicino ai vessilli, “l’uomo”, con la sua precarietà e il suo bisogno di continue certezze.
Tra le canzoni emblematiche di questa “rara fusione di temi” si situa sicuramente “…Qui ci vorrebbe John Wayne”, ultimo suo grido verso la scelleratezza, di chi comanda sì, ma anche contro i sudditi contenti di essere sudditi. Inutile nasconderlo, c’è anche questo, quando un pensionato, un impiegato pubblico dicono a Grillo che deve farsi i cazzi suoi, che loro si vogliono godere i quattro soldini che si son guadagnati, beh, c’è poco da discutere: sono loro il lasciapassare per la cattiva politica e per la conseguente vita grama di chi ha niente. La redistribuzione dei beni, l’uguaglianza, il livellamento stipendiale? Macchè, macchè… la gente, certa gente non lo sa, ma è connivente con chi la sfrutta: cos’altro significa infatti che ‘…i direttori, i dirigenti, lo statista e via dicendo, hanno diritto a guadagnare di più e ad un trattamento diverso?’. Guadagnare di più… trattamento diverso… Ma per quale cazzo di ragione? Purtroppo, così ragiona il popolino ammaestrato e appartenente al gregge, quello raccontato da Friedrich Wilhelm Nietzsche. Ma, ritornando alla produzione di Parisi, quanti autori di canzoni in Italia hanno saputo fondere in un brano il sentimento e la politica di “in questa Italia di stronzi e di yes man/ qui ci vorrebbe John Wayne”? Ovviamente, il John Wayne auspicato è metaforico, il richiamo più vicino è quello del M5s, unica possibilità e vera novità dal 1948 a tutt’oggi.

Mimmo-piano
Nei Rocco Siffredi, Schettino, e perfino l’incolpevole Peppa Pig, citati nella canzone, compare la disillusione, la consapevolezza di un mondo che non vuol cambiare e di partiti che non saranno mai più gli stessi (la canzone descrive l’attuale o quasi recente storia delle ‘cose’ successe e che succedono in Italia)”. Nel secolo scorso si era tentata la mediazione tra i due grandi partiti di massa di allora, DC e PCI, poi tutto è naufragato nel giro di poco tempo.
Quindi, il declino del “grande partito rosso italiano” era quindi cominciato, la ricerca di “una nuova identità” continua infruttuosa anche oggi, con gente di destra che si è intrufolata alla chetichella perché, se è di moda essere di sinistra, nella vita è meglio farsi leccare il culo, come insegnano i gerarca…

j. w. 300
“…Qui ci vorrebbe John Wayne è stato registrato nello studio personale di Mimmo Parisi – Stelledicarta – , la produzione è al solito molto spartana e con mixing e mastering ‘buona la prima o al massimo la seconda tanto la Warner o la Virgin non mi cagherà mai’, la promozione si ancora ai simpatizzanti del web, ai giornalisti freelance, ai blogger appassionati, alle radio/tv e agli store che ospitano la produzione di Mimmo Parisi in modo disinteressato.

Diego Romero, giornalista freelance e blogger

Qui il link al video: http://www.youtube.com/watch?v=rakuoJZwoCE&feature=youtu.be

 

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