Keith Emerson

Keith Emerson, come ha confermato la polizia di Los Angeles, si è tolto la vita con un colpo di pistola alla testa nella sua villa di Santa Monica. Aveva compiuto 71 anni lo scorso novembre. Da un po’ non riusciva più a suonare a causa della malattia degenerativa che gli andava paralizzando le dita. Un colpo di grazia su un musicista già da tempo sulla via del declino creativo, dopo essere stato un istrionico principe del palcoscenico, un rocker che aveva fatto del virtuosismo, anche fisico, il suo marchio di fabbrica in una cavalcata travolgente di successi nei primi anni Settanta. Un innovatore, il primo a utilizzare il mastodontico sintetizzatore monofonico modulare Moog III C sul palco, per dare vita – insieme a Greg Lake e Carl Palmer – a brani memorabili in cui il rock si fonde con la musica classica. E in cui l’emozione più profonda, la scintilla che scatena, il luccichio che sconvolge, nasce sempre dalle sue dita che corrono impazzite e velocissime sulle tastiere. Quelle tastiere sulle quali, all’acme delle esibizioni, Emerson si accaniva saltandoci sopra, torturandole, rovesciandole a terra per estrarne suoni che andassero al di là del virtuosismo. Dritto all’anima del rock.

Lacrime rock: da David Bowie a Keith Emerson i big morti in un anno Musica: ecco le morti illustri che hanno disseminato il 2015 e questo inizio 2106, chiudendo un’epoca gloriosa. -E dritto all’anima del rock and roll parla anche, nella sua poetica tragicità, la morte stessa del musicista di Todmorden. Un lutto, come quello ancora non elaborato di David Bowie, o dell’Eagle Glenn Frey, o del Jefferson Paul Kantner, che fa inevitabilmente pensare alla fine di un’epoca “eroica” della musica pop. Alla fine stessa del rock inteso come lo hanno inteso quelle che erano le giovani generazioni fra gli ultimi anni Sessanta e un po’ tutti i Settanta.

Certamente le morti illustri che hanno disseminato i dodici mesi del 2015 e questo primo scorcio del 2016 hanno chiuso capitoli gloriosi di quell’epoca e di quel modo di intendere la musica. Gruppi, e solisti, ormai tagliati fuori dal grande giro delle nuove produzioni – fatta unica l’eccezione di Bowie – ma che continuano e continueranno a suonare nelle case dei cinquantenni (ma di certo anche più attempati) di oggi. Perché il rock, per chi è cresciuto con gli Elp, con i Jefferson, con Bowie, con gli Yes, ma anche con il Banco e con Pino Daniele, suonerà sempre con le note di Tarkus, di White Rabbit, di Ziggy Stardust, di Close to the edge… E chi è cresciuto con quei suoni, con quelle esibizioni clamorose, stenta oggi a trovare gli eredi dei propri miti giovanili. Ci sono gli U2, forse, ma la loro è una vicenda che si lega più alle ultime propagini di quella stagione che a una musica nuova davvero. Così come la lunga parabola di Bruce Springsteen. I Radiohead, forse, possono tenere il passo e portarci verso nuovi orizzonti. Molto altro non mi viene in mente, se ancora le folle accorrono ai concerti dei Rolling Stones e dei grandi vecchi che ancora riescono a calcare le scene.